I primi di Novembre, l’attenzione della stampa internazionale è tornata sulla questione relativa all’aborto in Polonia.
Migliaia di manifestanti provenienti da tutto il Paese sono scesi in piazza per protestare a seguito della morte di Izabela Sajbor, trentenne di Pszczyna, lasciata morire di sepsi dai medici a causa delle complicazioni sopraggiunte alla ventiduesima settimana di gravidanza, nel timore di violare la legge attualmente vigente nel Paese.
Una legge introdotta alla fine di Gennaio (il cui inserimento in Gazzetta Ufficiale è stato peraltro operato senza alcun preavviso) sulla scorta di un appello di un centinaio di parlamentari, e conseguentemente di una sentenza della Corte Costituzionale dell’Ottobre 2020 (approvata per 11 voti favorevoli e 2 contrari), la cui emanazione è stata a lungo ritardata, a causa delle aspre proteste che già allora aveva suscitato.
La sentenza (e, automaticamente, la legge) sostengono infatti adesso che l’aborto per grave malformazione del feto violi la Costituzione. Già prima della nuova normativa, la Polonia deteneva una legislazione sull’aborto (risalente al 1993) tra le più restrittive in Europa, ammettendo l’aborto solo in caso di pericolo di vita per la madre, stupro e, appunto, grave malformazione del feto. E il dato più eloquente è quello secondo il quale il 98% delle IVG nel Paese venivano allora praticate proprio per quest’ultimo motivo. In precedenza, si erano già verificati altri due tentativi di introduzione della legge: il primo, nel 2016, bloccato dalle Czarny Protests (“Proteste In Nero”), perorate dalle donne polacche e supportate da molte altre comunità femministe nel mondo; il secondo, nell’Aprile scorso, attraverso una proposta poi tornata in Commissione.
Entrambe le proposte erano state promosse dal partito di estrema destra “Diritto e Giustizia” (PiS; quale diritto? Quale giustizia? Verrebbe da chiedersi), molto vicino alle gerarchie cattoliche del Paese, e tra le cui fila figura anche il Primo Ministro Mateusz Morawiecki.L’avvocata della famiglia di Izabela, Jolanta Budzowska, ha dichiarato: «Izabela è entrata in ospedale alla ventiduesima settimana con una grave complicanza, ovvero una totale mancanza di liquido amniotico.
Le venivano confermati anche difetti congeniti precedentemente sospetti. Tuttavia, anziché prevenire la sepsi svuotando la cavità uterina, affinché si verificasse un aborto spontaneo, i medici hanno atteso il decesso del feto. In questo modo, oltre al feto, anche la paziente è morta per le conseguenze dello shock settico.
Secondo le cartelle cliniche, non è stato compiuto alcun tentativo per salvare il bambino durante la degenza in ospedale: il feto non è stato rimosso mentre era ancora in vita, il che sarebbe stato in linea con l’EBM (Evidence Based Medicine) e avrebbe ridotto il rischio di sepsi. Da un lato, i medici hanno ignorato la minaccia per la salute della paziente e, dall’altro, temevano le conseguenze legate al compimento di un aborto illegale. La cosa tragica è che Izabela era consapevole del pericolo che stava affrontando.
In teoria, i medici avrebbero potuto interrompere legalmente la gravidanza, ma dopo l’inasprimento della legge anti-aborto in Polonia, c’era solo una condizione che poteva applicarsi a questo caso: la minaccia per la salute o la vita della madre. Solo che si tratta di una specifica molto difficile cui ricorrere nella pratica. Nelle loro dichiarazioni pubbliche, i medici affermano di non essere mai sicuri di agire legalmente, quando si presenta questa condizione.
Se l’aborto giunge troppo presto, e poi il Pubblico Ministero dimostra che non ci sia stata alcuna minaccia reale, rischiano fino a tre anni di reclusione. Prima della modifica alla legge, i medici erano più sicuri: potevano anche eseguire un aborto per motivi embriopatologici, così come avrebbe dovuto accadere nel caso di Izabela». Nei giorni scorsi, alcuni media polacchi hanno avanzato l’ipotesi della falsificazione dell’intera cartella clinica di Izabela Sajbor.Secondo le organizzazioni femministe, ogni anno tra le 100.000 e le 200.000 donne sono costrette a ricorrere all’aborto clandestino o a intraprendere esodi verso Paesi vicini in cui l’aborto è (ancora) consentito.
“Ani Jednej Więcej” è lo slogan utilizzato dalle/i manifestanti polacche/i contro una legge liberticida e – questa, sì – omicida, e significa “Non Una Di Più”. Anche noi lo pronunciamo con forza, per esprimere vicinanza e solidarietà alle donne polacche. Per dire loro che non sono sole in questa battaglia. Per combattere contro l’istituzionalizzazione del possesso sui nostri corpi, in favore della libertà di autodeterminazione.