Il tuo corpo non è tuo.
Mi piacerebbe davvero essere ottimista.
Vorrei parlarvi di body positivity, di self-acceptance, di come tutti i corpi sono belli e validi; sarebbe bello se vi aiutassi a stare meglio con voi stessae, ad accettarvi e ad amarvi esattamente come siete.
Ma la realtà è ben diversa e non sono brava a raccontare favole.
E quindi vorrei partire proprio da qui, dalla messa in discussione di questa colossale illusione: il tuo corpo non è tuo, e qualsiasi sforzo tu faccia per far sì che lo diventi non sarà mai abbastanza.
Non dipende da te, dalla tua capacità di azione e reazione o dalla tua emancipazione.
Non dipende nemmeno dalle opportunità che hai di scegliere cosa farne, del tuo corpo.
Non dipende da quanto il giudizio delle altre persone ti influenzi, da quanti traumi hai avuto e da come li hai elaborati.
Non dipende dalla tua percezione del riflesso di te allo specchio, né da quella – fenomenale – sensazione che provi quando ti accorgi che sei esattamente come vorresti essere, almeno per qualche istante.
Il tuo corpo non è tuo, e non lo sarà mai finché qualcun’altrae, oltre a te, potrà dargli un significato.
Il corpo di una donna trans, nera, grassa e con disabilità, per esempio, avrà un significato diverso rispetto al mio (un corpo magro, bianco e senza disabilità) e questo avviene indipendentemente da ciò che lei pensa di sé stessa, perché lo spazio in cui il suo corpo si muove è uno spazio sociale dove l’intersezione culturale né determina il significato.
Sembra complesso, ma non lo è.
Esiste una gerarchia sociale dei corpi: il vertice è rappresentato dagli standard eteronormativi di abilismo e magrezza, mentre sul fondo troviamo qualsiasi corpo fatichi a muoversi all’interno della società.
Questa gerarchia trova la propria legittimazione in tre dimensioni consequenziali; la prima dimensione è quella sociale ed è rappresentata dalla possibilità di un corpo di potersi muovere liberamente all’interno di una società; la seconda dimensione, influenzata dalla prima, è quella interpersonale ed è la percezione e la considerazione che hanno le altre persone del nostro corpo; la terza dimensione, risultante dalle altre, è quella intrapersonale, ovvero la nostra percezione e considerazione del nostro corpo.
La donna trans, nera, grassa e con disabilità di cui parlavamo sopra avrà molte difficoltà ad autodeterminarsi: sul piano sociale, faticherà a muoversi perché ostacolata da disservizi, barriere architettoniche, razzismo, transfobia e grassofobia, e questo influenzerà la considerazione che le altre persone – o almeno, la maggior parte – avranno del suo corpo; a questo punto la percezione intrapersonale non può che essere inquinata.
Può emanciparsi filtrando l’aspetto emotivo, può liberarsi della gabbia estetica e rinunciare alla rappresentazione, ma il corpo della donna trans, nera, grassa e con disabilità continuerà ad essere sbagliato per questa società.
E come si chiama qualcosa che è sbagliato?
ERRORE.
E un errore, ontologicamente, va corretto.
Peccato però che a ‘sto giro da correggere non ci sia proprio nulla; c’è solo da DISTRUGGERE, da radere al suolo tutte le sovrastrutture che nel tempo hanno rafforzato l’idea di un corpo non conforme come un corpo sbagliato, “solo” perché non soddisfa uno o più standard; ma gli standard – sorprendentemente – possono essere cambiati: dal momento in cui veniamo al mondo siamo tenutae a soddisfare le aspettative di un apparato costruito sull’oppressione delle debolezze e la repressione delle diversità, e per quanto ci si eserciti nell’antica arte dell’indifferenza, prima o poi tocca a tuttae essere l’ERRORE.