Collettivae abbraccia la causa della salute mentale.
Lo scorso Novembre, a nome di Collettivae, ho incontrato due rappresentanti dell’Associazione “L’Arco Onlus, Corrispondenze per la Recovery”. L’Arco è una Onlus che nasce a Bologna nel 2017, dall’idea di Michele Filippi, medico psichiatra presso il Dipartimento di Salute Mentale di Bologna fino al 2014, e che negli ultimi anni, oltre all’attività clinica, si è occupato di diverse iniziative, tra cui quella dell’orientamento dei servizi alla recovery e della sperimentazione del supporto tra pari.
L’Associazione si occupa infatti di accompagnare in un percorso di recovery, e dunque di ripresa, le persone che hanno sofferto e/o soffrono di un disturbo psichico o disagio sociale qualsiasi, e che a causa di esso riscontrano delle difficoltà a riprendere il filo della propria vita. Lo scopo è quello di aiutarle a ricostruire legami con l’ambiente che le circonda, in tutti gli ambiti della vita in cui si sentono in qualche modo arenati. Coloro che, infatti, si rivolgono all’Associazione, non lo fanno in qualità di pazienti, bensì semplicemente di persone fruitrici dei servizi dell’Arco.
Particolarità dell’Associazione è la presenza di facilitatori pari edispari, persone accomunate dalla conoscenza del disturbo mentale, attraverso due distinti percorsi: i dispari attraverso lo studio e la professione, e i pari per esperienza personale del disagio mentale.
In particolare, ho avuto il piacere di dialogare con Martina e Francesca, rispettivamente collaboratrici pari e dispari dell’Arco. Mi hanno accolta nella sede dell’Associazione a Bologna, e ci siamo sedute al tavolo, il luogo fisico in cui avvengono i dialoghi di confronto.
Leggendo la missione dell’Associazione ho notato l’evidenziazione di due parole fondamentali: i termini recovery e corrispondenze. Che cosa significa recovery?
Francesca: Tutta l’attività svolta dall’Arco si incentra sul concetto di recovery, molto inflazionato oggigiorno, utilizzato in molti ambiti, non solo quello della salute mentale. Recovery è un concetto inglese che nasce negli Anni ‘80 in America, principalmente da un gruppo di utenti dei servizi psichiatrici americani, che formano un vero e proprio movimento del recovery, il quale parte dal basso e punta alla rivendicazione dei propri diritti. L’obiettivo era proprio quello di smettere di essere utenti, semplici fruitori di un servizio, prendendo invece parte attiva al proprio percorso di ripresa.
Recovery, a livello di traduzione italiana, ha tanti significati, tanti termini: fondamentalmente significa riprendere in mano la propria esistenza, tornare ad essere protagonisti della propria vita e poter scegliere per sé stessi. Questo è il concetto intorno al quale l’Associazione si sviluppa ed intorno al quale è nata.
Martina: Nel termine recovery risuona inoltre fortemente l’eco del concetto di potere nella relazione di aiuto. Tale potere viene restituito, o meglio, le persone che fanno un percorso di ripresa lo recuperano e attraverso questo indirizzo metodologico noi facilitatori rappresentiamo un supporto, un confronto. E’ uno scambio di punti di vista e di idee, proprio per co-costruire, co-progettare qualcosa in cui la persona è sempre al centro.
Sempre all’interno dell’indirizzo metodologico dell’Arco c’è un setting orizzontale della relazione. Per questo, noi facilitatori siamo effettivamente personale dell’Arco, ma quando siamo al tavolo insieme non c’è chi cura e che viene curato, bensì tre persone che parlano ed effettuano un interscambio.
Francesca: Appunto, il concetto di recovery nasce come esigenza dal basso; poi è stata ripresa in vari ambiti, con vari ruoli all’interno della società. Quello che caratterizza l’Arco – e spero non soltanto – è il fatto che il facilitatore in questo caso non propone alla persona un piano riabilitativo prestabilito e predisposto, obbligandola ad adeguarvisi, ma anzi si mette all’ascolto della persona stessa, aiutandola e sostenendola nel cercare di esprimersi e di far venir fuori chi è, quello che vuole e dove desidera arrivare.
Che cosa significa corrispondenze?
Francesca: Anche il concetto di corrispondenza, come già accennato, è alla base dei progetti dell’Arco, perché ha dentro di sé più risvolti. Primo fra tutti, la presenza dei pari all’interno dell’Associazione: persone che hanno un’esperienza diretta del disagio mentale o sociale e di determinate fragilità e difficoltà della vita. Esse, allo scopo di creare una corrispondenza, pongono la loro conoscenza a disposizione della persona che si rivolge all’Arco, in modo tale da farle capire che nel disagio che sta provando in quel determinato momento – o magari, da tutta la vita – non è sola, ma c’è appunto una risonanza.
Martina: Banalmente, persino il fatto di avere vicino o incontrare qualcuno che ha esperito la sofferenza mentale, anche se non è specificatamente il tipo di disagio di cui si è sofferto, ha un effetto mitigante dello stigma che il paziente percepisce verso sé stesso. Ad esempio, la persona che desidera intraprendere un percorso può aver sofferto di depressione, mentre il pari di psicosi: anche se sono due patologie diverse, sono comunque disagi e sofferenze mentali, che portano con sé un bagaglio comune di stigma (relativo a esperienze nel relazionarsi, visione di sé, sofferenze inesplicabili, incomunicabilità delle proprie sensazioni). Tutto questo spesso e volentieri fa sentire la persona sola, portandola a pensare “questa cosa succede solo a me”,“così in basso ci vado solo io”, e tutti questi pensieri vengono automaticamente sciolti anche solo dalla presenza del pari, perché anche senza parlare questi è la prova vivente che determinate esperienze sono più comuni di quanto si pensi. E’ un elemento che può aiutare a sdoganare un certo tipo di dialoghi e pensieri, facendoli fluire in una maniera diversa. In questo, le risonanze sono importantissime, e non per forza devono avvenire con il pari, ma anche con il dispari.
Francesca: Quindi il concetto di corrispondenza non riguarda soltanto il pari, ma anche il dispari, perché le risonanze possono verificarsi anche su più piani. Non si propone infatti una soluzione di vita al fruitore, ma la si costruisce insieme, anche confrontando esperienze e saperi. L’obiettivo è quello di facilitare la persona nel creare corrispondenze non solo all’interno dell’Arco, ma anche nel proprio quotidiano.
Martina: Un po’ come se fosse il sasso gettato nel lago. Inizialmente le corrispondenze sono limitate ai tre individui che sono al tavolo (pari, dispari, fruitore), con l’obiettivo di ampliare questo anello d’acqua e farlo arrivare fuori. Le persone si allenano a far girare le corrispondenze emotive intorno a un tavolo, per poi lanciare il sasso un po’ più in là, ingrandendo lo scenario delle corrispondenze.
Al termine corrispondenza è connesso anche il concetto di reciprocità: infatti le persone che entrano in contatto con la vostra struttura, hanno un ruolo attivo nella realtà della Onlus, e prendono parte all’organizzazione di progetti ed attività, giusto?
Francesca: Ricollegandoci a quanto detto prima, sicuramente la persona deve avere un ruolo attivo all’interno dei nostri percorsi fin dall’inizio; uno dei pochi paletti che abbiamo per iniziare un percorso con la persona ed accettarla nel progetto è che deve essere lei stessa a voler iniziare questo tipo di percorso e a volersi mettere in gioco.
Viene “eliminata” tutta quella serie di persone – quali psichiatri, assistenti sociali o parenti – che la costringono ad intraprendere il percorso con noi. Noi lavoriamo sulla volontà delle persone. Può anche trattarsi inizialmente di una volontà fioca e che ci sia bisogno di stimolarla, ma sicuramente non lavoriamo con una persona a cui il percorso sia stato imposto. Già dal primo contatto con noi è importante che ci sia il desiderio di esserci e partecipare. Anche nei percorsi di gruppo che facciamo è richiesta e ben accetta la partecipazione attiva di tutte le persone, non solo di chi sta già facendo un percorso individuale, ma anche di persone esterne: cittadini a cui offriamo la possibilità di partecipare ai corsi, i quali ruotano attorno ad argomenti più o meno specifici della salute mentale. Durante questi incontri viene facilitata e stimolata la condivisione dei vari punti di vista e spesso prendiamo spunti per poter poi costruire un gruppo successivo. Nella progettazione e costruzione di ogni gruppo viene fatto quasi sempre almeno un incontro di co-produzione e di co-progettazione del gruppo stesso.
Martina: Siamo un’organizzazione no profit, quindi non ci facciamo pagare, se non con una quota di €20 per 6 mesi, solo per i percorsi individuali. Ho potuto osservare che le persone tengono al progetto anche perché è accessibile a livello economico.
Ci sono persone che hanno fatto solo percorsi di gruppo, altre che ci hanno conosciuto su Internet, altre ancora che hanno deciso di contribuire alle iniziative dell’Arco. Cerchiamo sempre di mandare avanti la macchina attraverso il carburante delle persone.
E’ in fase di elaborazione un dispositivo dedicato alla conclusione dei percorsi, da utilizzare qualora la persona senta di aver raggiunto i propri obiettivi ma non voglia propriamente distaccarsi dall’Arco: stiamo pensando e mettendo in pratica metodi e modi per permettere alle persone di continuare ad orbitare intorno all’Arco, premesso che debbano comunque svilupparsi indipendentemente ed autonomamente al di fuori di esso.
Parliamo in modo più specifico del tipo di contributo che le due funzioni di pari e dispari danno all’Arco.
Martina: I pari sono persone con esperienza di vita toccata dal disagio mentale o sociale, formati per poter condividere le proprie esperienze con persone che stanno affrontando determinate sfide; i dispari sono invece persone con competenze professionali nell’ambito “psi” (psichiatrico – NdA).
Nel caso specifico, attualmente abbiamo un’ educatrice, due psicologi ed uno psichiatra. Tutti loro non ricoprono al tavolo il proprio ruolo di professionisti, bensì sono semplicemente facilitatori. La distinzione in pari e dispari è solo interna, poiché serve a spiegare il metodo che c’è alla base della direzione dell’Arco e dell’idea di recovery, ma al tavolo con il fruitore il nostro ruolo è equivalente.
Francesca: Questo è uno dei motivi per cui gli incontri si fanno a tre e non a due. Tutte e tre le persone intorno al tavolo contribuiscono a portare le proprie soluzioni. Ognuno di noi offre ciò che ha: può trattarsi sia di un’esperienza di vita che di un sapere professionale. Ci si aspetta che quest’ultimo provenga più dal dispari, ma in realtà ognuno è professionista a modo suo. Infatti, quasi tutti i pari sono laureati; attualmente abbiamo un’antropologa, un ingegnere ed una laureata in scienze politiche.
Martina: Il ruolo è fluido; coerentemente con i valori dell’Associazione, non diamo un’etichetta né a noi stessi né a chi arriva. Vediamo come si sviluppa la relazione nel momento in cui cominciamo a parlare.
A chi è aperta la Onlus? Chi può usufruire di questo servizio?
Francesca: Possibilmente chiunque, ci sono però dei limiti: lavoriamo solo con maggiorenni e persone che riescono a parlare e comprendere sufficientemente la lingua italiana; è inoltre necessario un minimo livello cognitivo, per riuscire a poter lavorare su un certo piano di consapevolezza di sé stessi.
L’altro requisito fondamentale è che la persona che proviene da un servizio sociale o mentale non stia vivendo, nel momento in cui si rivolge a noi, una forte crisi. Ad esempio, se si tratta di un senza dimora, è difficile che possa svolgere un lavoro di recovery, perché ovviamente il suo pensiero fisso sarà quello di trovare una sistemazione; noi, ovviamente, non essendo un servizio sociale, non possiamo aiutare la persona a livello pratico sotto quel punto di vista, quindi la invitiamo a risolvere prima la sua situazione di emergenza e poi a iniziare un percorso con noi.
Lo stesso vale per le persone con dipendenze: riusciamo a lavorare con loro soltanto quando queste non sono molto forti e attive, dal momento che il loro pensiero costante sarà quello di trovare la sostanza o esserne continuamente sotto l’effetto. In questo caso verrebbe logicamente a mancare il secondo punto, ossia l’essere cognitivamente pronti a lavorare sul proprio percorso.
Martina: Noi dobbiamo chiedere alla persona un certificato redatto dal medico curante o dal servizio sociale che la ha in carico. Non importa che sia il Centro di Salute Mentale – può anche essere uno psicologo privato – ma abbiamo bisogno di qualcosa che attesti che questa persona effettivamente viva in una condizione di fragilità. E questo non solo per l’Agenzia delle Entrate, ma anche e soprattutto perché il nostro lavoro non vuole sostituirsi a percorsi già esistenti da un punto di vista psicologico, psichiatrico o sociale. Il nostro è un lavoro “a tavolino”, non aiutiamo la persona fisicamente a risolvere determinate problematiche e non badiamo a tutto il trattamento clinico terapeutico e farmacologico; anche per questo quindi persone che siano fortemente in crisi vengono caldamente indirizzate al curante di riferimento: noi non gestiamo una crisi di tipo psichiatrico acuto, ma aiutiamo la persona ad attivare le corrispondenze, dunque ad attingere alle reti che ci sono intorno, alle proprie risorse e magari anche a capire quali sono invece le proprie fragilità.
L’Arco è inoltre indipendente dai servizi del territorio, ciò significa che non abbiamo invii o prese in carico dai servizi esterni. La Onlus sopravvive tramite donazioni liberali e finanziamenti della società civile. Questo significa che quando la persona si rivolge a noi, non abbiamo né volontà né dovere di fare report all’assistente sociale oppure allo psichiatra e via dicendo. Ciò ha lo scopo di lasciare la persona più libera di raccontarsi, permettendole di parlare dei suoi disagi ed obiettivi, senza tenere la sua cartella clinica o sociale (a parte ovviamente, come già specificato, l’attestazione di una condizione mentale). Proprio in quest’ottica, è importantissimo che l’Associazione riesca a tenersi in piedi sulle proprie gambe. È stata fatta una valutazione con un sociologo e una psicologa esterni all’Arco sulle persone che hanno usufruito del nostro servizio ed abbiamo visto che la loro qualità della vita è notevolmente migliorata. Questo posto rappresenta una sorta di isola rispetto alle altre strutture ed è molto importante per le persone.
Adesso che abbiamo capito di avere un impatto sociale positivo sul territorio, stiamo facendo raccolte fondi, campagne e partecipazioni a bandi, così da poter continuare ad offrire questo tipo di porto sicuro alle persone che si rivolgono a noi.
Francesca: Per quanto riguarda il rapporto con i curanti, è importante specificare che noi non cerchiamo un contatto con loro e, se ci viene richiesto, spieghiamo il motivo per cui evitiamo di mantenerlo. Tuttavia, qualora una persona che stia facendo un percorso con noi si trovi in difficoltà nel rapporto col proprio curante e ci chieda espressamente di farne parte, solo lì entra in gioco il nostro entourage, sussistendo ovviamente il pieno consenso della persona stessa. Solo se questa ci chiede di entrare in contatto con il curante o il servizio sociale noi lo facciamo, e comunque, anche in tal caso, valutiamo prima con lei se sia effettivamente la cosa migliore da fare.
Come vi preparate al contatto con le persone?
Francesca: Con una formazione continua sui temi per cui siamo qui. Riceviamo inoltre supervisioni periodiche, che ogni facilitatore fa individualmente per capire se il proprio lavoro stia andando bene; c’è dunque un controllo sia particolare che generale. In più, quando accogliamo una persona nuova, abbiamo due incontri iniziali di conoscenza (cui partecipa anche il Presidente dell’Associazione insieme al pari che poi, se vorrà, seguirà la persona), in cui ci presentiamo e capiamo insieme in che direzione andare. In itinere i due facilitatori hanno vari momenti di incontro, in cui si scambiano pareri e punti di vista, che a volte possono essere molto differenti anche in virtù della loro diversa natura. Questo accade sia a livello individuale che a livello collettivo, ed ogni Mercoledì ci confrontiamo sui percorsi che stiamo portando avanti al fine di avere l’apporto ed il punto di vista di tutti i facilitatori sui relativi progressi.
Da questo punto in poi dell’intervista ho continuato a parlare solamente con Martina – data la sua qualità di pari con una pregressa esperienza di depressione – anche per capire cosa significhi effettivamente trovarsi da quella parte del tavolo.
Cosa ti ha fatto avvicinare alla Onlus?
Mi sono avvicinata alla Onlus perché c’è stato un periodo della mia vita in cui, tra un burnout lavorativo e l’inasprimento di alcune situazioni, ero un po’ in un pantano. In quel periodo mi seguiva il servizio sociale di quartiere: loro erano informati dell’esistenza dell’Arco, mi hanno incoraggiata a provare e così ho iniziato un mio percorso di recovery.
Cosa ti ha spinta a rimanere nella Onlus?
Quando sono arrivata, come da procedura, ho effettuato i primi due incontri di presentazione reciproca, nei quali però non era ancora presente il dispari, bensì Michele, il Presidente, che ha introdotto, insieme al pari, tutte le opportunità che si possono avere qui.
Inizialmente non avevo ben capito che tipo di Associazione fosse e questo mi rendeva nervosa. La tensione, però, si è molto ridotta quando mi hanno presentato il pari, il quale, a prescindere dai suoi studi di psicologia, era lì perché soffriva di un disagio. Si è infatti presentato e raccontato, candidamente e tranquillamente. In quel periodo pensavo di essere un mostro, una mosca bianca nella peggiore delle accezioni, ma questa persona, che si è raccontata in modo così calmo, ha abbassato il mio livello di ansia. Sono tornata perché qui mi sentivo tranquilla, le mie parole non erano pesanti e non avevano conseguenze. Presso il servizio sociale, ad esempio, avevo sempre paura di dire la cosa sbagliata perché temevo di perdere il sussidio. Pensavo di essere giudicata. Questo mi ha fatto desiderare di tornare: in questo posto il disagio che provavo si vanificava. Un’altra cosa che mi ha fatta tornare è la gratuità pressoché totale del percorso: si danno €20 simbolici ogni sei mesi e con essi si può fare sia il percorso individuale (una volta a settimana o una ogni due), sia partecipare ai gruppi e co-progettarli. Non avendo in quel periodo disponibilità economica, questo per me è stato importantissimo. Anche il confronto con altre persone (il pari e il dispari), privo della tradizionale impostazione del percorso terapeutico, mi portava a vedere altri punti di vista: riuscivo a distaccarmi dal caos che avevo dentro e magari anche a guardarlo da una diversa prospettiva. Questo confronto una volta a settimana mi serviva molto, mi è servito tantissimo anche durante la pandemia, periodo che, soffrendo io di depressione, mi portava ancor di più a restare chiusa in casa, quasi come fosse un’isola felice.
Cosa ti ha spinta ad accettare la proposta di lavorare come pari, e che significato ha per te lavorare adesso per questa struttura?
Avevo già pensato di trovarmi un part-time e di continuare a lavorare con L’Arco come volontaria. Poi mi hanno offerto il lavoro e per me è stata un’occasione perfetta per unire questi due interessi. Anche il solo fatto di essere in un ambiente in cui liberamente posso dire di avere delle crisi di panico è per me una cosa molto grande. Nelle passate esperienze lavorative, solo quando la confidenza era tanta e mi ero già costruita un legame con il datore di lavoro mi sentivo libera di parlare, perlomeno a grandi linee, della mia situazione. Questo muro, invece, all’Arco era già stato abbattuto e per me è stato rivoluzionario il fatto di poter venire al lavoro senza maschere. La consapevolezza che il disagio mentale c’è, che è una mia condizione ma non un aspetto che mi fa essere “meno” di un’altra persona, è stata fondamentale. Anzi, il motivo per cui mi hanno offerto l’impiego è stata proprio la mia condizione, la quale è passata dall’essere un difetto ad una caratteristica utile per il mio lavoro. Vedo la realtà in un modo tutto mio, ma questo è per forza sempre negativo? In questo caso no, anzi, mi permette di capire la sofferenza mentale delle persone che ho davanti, la quale è di fatto inesplicabile e difficile da comprendere per chi non ne abbia avuto esperienza.
Quindi possiamo dire che la tua esperienza, in qualità di persona che ha usufruito dei servizi dell’Arco e che successivamente è entrata a lavorare all’interno della Onlus, è una prova concreta dell’impatto assolutamente positivo che può avere L’Arco nella vita delle persone che hanno vissuto un disagio mentale.
Noi speriamo che questa tipologia di supporto si replichi e si moltiplichi, poiché rappresenta un vuoto nel panorama di cura della salute mentale. Come abbiamo già detto lo psicologo, lo psichiatra, il servizio sociale e quello mentale hanno un loro ruolo, ben specifico. Tuttavia, ci sono degli spazi in cui le persone hanno bisogno di qualcos’altro: desiderano riprendere il filo, capire che direzione dare alla propria vita, sentirsi accettate, e per tutto questo il percorso di supporto recovery è preziosissimo.
Perché consiglieresti ad altre o altri di intraprendere questo percorso?
Nel caso in cui, per qualsiasi motivo, ci si senta bloccati o con dei pesi e delle zavorre inesplicabili, all’Arco possiamo trovare un posto senza giudizio in cui la narrazione che conta è sempre e solo la tua. Possiamo offrire un tavolo di confronto in cui siamo tutti allo stesso livello.
Intervista a cura di Isabella Cuseri
Immagini per gentile concessione de L’Arco Onlus
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