RASSEGNA STAMPA

Il femminismo in Afghanistan

La RESISTENZA e le donne del RAWA.

Nel nostro riassunto sulla questione afghana abbiamo anticipato quello che per Collettivæ è il vero perno dell’intera crisi umanitaria: l’instaurazione del regime più patriarcale e oppressivo che la storia moderna abbia mai conosciuto.

Vi abbiamo parlato di una costante lotta per la libertà, di come le vittime, quelle vere, non vengano (quasi) mai menzionate nella narrazione androcentrica e strumentalizzata della stampa internazionale; ci siamo schieratæ perché, in fondo, il dissenso silenzioso è solo una passiva accettazione.

Un po’ di numeri prima di iniziare:

  • l’Afghanistan ha una popolazione di 39 milioni di abitanti, di cui quasi 20 milioni sono donne;
  • di queste, l’ 87% ha subito almeno una volta una violenza sessuale o fisica;
  • nel 2003 (immediatamente dopo il crollo dei Talebani) solo il 10% delle ragazze frequentava la scuola primaria; nel 2017 la percentuale è salita al 33,4%;
  • le donne con accesso all’istruzione secondaria, nel 2003, erano solo il 6%, passando al 39% nel 2017;
  • 100.000 erano le donne che frequentavano l’università (100.000 su 20 milioni, capito?);
  • nel 2000, 1.100 donne ogni 100.000 morivano di parto; nel 2016, 396 donne ogni 100.000;
  • l’aspettativa di vita (che non è collegata solo allo stato sanitario di una popolazione, ma anche a quello sociale e ambientale)  dal 2003 al 2017, è aumentata di 10 anni, passando da 56 anni a 66;
  • nel 2020 il 21% dei dipendenti pubblici era rappresentato da donne e in Parlamento si arrivava alla percentuale del 27%; durante il dominio dei Talebani prima del 2003, la percentuale è praticamente nulla.

(Fonti: Al Jazeera, Guardian, Inspi)

Potremmo continuare a fornirvi barbare statistiche e affidarci alla storica disciplina dell’analisi matematica, per affrancarci da analisi ben peggiori di quelle numeriche, oppure continuare a cercare dati verificati per non dover approfondire le nostre responsabilità, e adagiare la questione sul piano sterile e nichilista di un darwinismo sociale che non ha trovato ostacoli.

Ma noi siamo un collettivo femminista intersezionale, e non possiamo girarci dall’altra parte.

Quello che sta accadendo oggi in Afghanistan ci concede un enorme privilegio: la messa in discussione dei nostri obiettivi. Sì, perché mentre il femminismo occidentale bianco continua le sue battaglie diplomatiche per capovolgere il sistema, le donne afghane sono schierate in trincea.

Essere donna oggi in Afghanistan, non rappresenta un ostacolo culturale alla costruzione di una società più equa: rappresenta un reale pericolo per la propria sopravvivenza.

Se la tua colpa è quella di essere donna, la tua condanna può essere la morte.

Alla fine degli anni Settanta, durante il periodo di occupazione sovietica, nacque il RAWA, Revolutionary Association of Women of Afghanistan, un’organizzazione femminile – e femminista –  volta alla conquista e alla tutela dei diritti delle donne in Afghanistan. Dapprima impegnata in aiuti umanitari e sanitari, ben presto si trasformò anche in movimento di resistenza contro le forze russe e i militanti afghani del KGB.

Questo si tradusse in una costante oppressione contro migliaia di donne che si opponevano ai regimi, quello sovietico prima e quello talebano dopo, e all’uccisione di molte attiviste da parte dei mujaheddin.

Anche la posizione (opposizione, ndr) del RAWA sull’intervento americano dopo l’11 settembre del 2001, fu chiarissima: gli USA avrebbero dovuto contrastare il terrorismo e lasciare che l’Afghanistan potesse, per la prima volta, ricostruirsi come paese libero da qualsiasi dominio, senza influenzarne la politica interna e la dimensione culturale e senza millantare interessi come l’istaurazione di una democrazia o i diritti delle donne, proprio perché niente di tutto ciò somigliava al reale motivo dell’occupazione militare americana in Afghanistan.

Le donne del RAWA hanno sempre combattuto, clandestinamente ma mai passivamente, contro l’oppressione e la violenza, si sono prodigate per costruire ospedali, scuole, orfanotrofi, case di accoglienza, posti sicuri insomma, esattamente l’opposto di ciò che era – ed è, ahimé – la condizione attuale delle vittime.

Sempre grazie all’organizzazione, nei collettivi femministi, nelle riunioni segrete e ove possibile, si sono toccate tematiche fondamentali per lo sviluppo della nazione, come l’alfabetizzazione femminile, l’emancipazione economica e, più in generale, la costruzione di una coscienza politica e sociale che portasse le donne ad autodeterminarsi di fronte ai principi fondamentalisti della Sharia.

Quando il portavoce dei Talebani ha dichiarato che non c’è alcuna differenza tra la loro ideologia nel 1996 e quella di oggi, il mondo sembra essersi improvvisamente accorto che, nonostante Doha, niente era cambiato.

Ma il RAWA già lo sapeva: lo sapeva quando registrava con telecamere nascoste i crimini e gli abusi dei talebani e spediva i video alle emittenti internazionali più importanti; lo sapeva quando protestava e marciava per le strade della capitale Kabul urlando a gran voce “VOI AVETE CREATO IL CAOS, NOI DONNE RESISTEREMO” mentre guerriglieri estremisti rompevano le fila con spari e manganellate; e lo sapeva anche quando ha chiesto aiuto a tutto il movimento femminista occidentale per smascherare i reali obiettivi delle grandi potenze nella lotta al terrorismo.

Ad oggi, il RAWA costituisce ancora il più importante gruppo femminista rivoluzionario dell’Afghanistan, la vera RESISTENZA. RAWA non affianca solo le donne nella lotta alla sopravvivenza in un paese in cui questa è determinata dalla tua sottomissione a uomini brutali e integralisti, ma contribuisce in maniera decisiva alla consapevolezza che nessunæ ti salverà: nemmeno il sogno americano, perché da quel sogno, purtroppo, ci siamo svegliatæ.

Cosa significa essere donna, oggi, in Afghanistan?

Quello che significava esserlo 25 anni fa: il tuo diritto di esistere, ancora prima di quello all’istruzione, al lavoro, alla salute, alla libertà di espressione, è a rischio.

E la storia delle RAWA ci fa capire come la lotta per l’autodeterminazione non sia collegata solamente alla presenza talebana, quella sovietica o americana, ma sia profondamente alimentata dal bisogno di sovvertire un sistema androcentrico in cui una donna, per sopravvivere, non deve vivere.

E mentre noi leggiamo le notizie e scorriamo i post, indignatæ da qualcosa che, forse, non ci disturberà mai abbastanza da poterlo definire “quotidianità”, le femministe afghane resistono: in un contesto in cui nascere donna ti pone tra la vita e la morte, è importante qualsiasi atto rivoluzionario.

Anche protestare continuando a vestirsi colorate, non abbandonarsi al burqa, uscire da sole per strada, coltivare degli interessi, sono atti reazionari. Stai dicendo che esisti, che hai una storia, una personalità, una tradizione fatta e costruita per millenni da donne esattamente come te. Ogni volta che ti esponi contro l’Emirato non vieni semplicemente schedata, non guadagni solo fama; attiri su di te scariche di proiettili, torture, stupro e violenza.

Sei una donna morta che cammina, che usa gli ultimi respiri per condannare quello che le succederà, per vomitare su di un Occidente che si è divertito sulla tua pelle senza effettivamente fare nulla. 

E quando l’urlo, la rabbia e la disperazione di queste donne ci raggiunge, ci chiediamo: che cosa abbiamo fatto per aiutarvi? E cosa, adesso, possiamo fare?

E’ difficile rispondere, ma noi proviamo a farlo qui.

Elisa Alvelli, Gloria Gori

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Politicizzo anche quello che mangio, cerco di avere una impronta ecologica il meno impattante possibile, mi interessa il turismo, l'economia, la politica, i gattini e i gyoza vegani.
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