RASSEGNA STAMPA

L’importanza del femminismo occidentale nella questionæ afghana

Che senso ha il femminismo bianco e occidentale di fronte ad una crisi umanitaria di queste proporzioni? In che modo una manifestazione in una piazza può salvare le vite di donne, uomini e bambinæ a cui la vita, adesso, è stata annientata? E quanto è giusto continuare a combattere per dei diritti secondari (non per importanza, ndr) quando è in atto una delle più grandi violazioni dei diritti fondamentali dell’individuo?

Non possiamo negarvi che queste domande ce le siamo fatte, spesso. Non possiamo nemmeno concedervi l’assoluto di fronte a questioni così complesse.

Se dovessimo fare un bilancio in termini di utilità – quella pragmatica, che piace tanto a chi non ha altre argomentazioni – di una manifestazione in piazza in sostegno alle donne afghane, è chiaro che saremmo in negativo: siamo in strada con dei cartelli ad esercitare un nostro diritto più o meno indisturbate, non stiamo marciando mentre degli uomini armati ci sparano per la sola colpa di essere donne.

E se dovessimo darvi ancora qualche antitesi al nostro movimento, vi diremmo che certamente parlare di catcalling mentre la libertà di milioni di donne è compromessa al punto di non poter più parlare, studiare, lavorare e uscire di casa, è totalmente inappropriato.

Se arrivi a mettere in discussione ciò che sei, ciò per cui hai lavorato, ciò per cui ogni giorno combatti, significa che sei più utile di quanto pensi.

Il privilegio non è una colpa, è una condizione, esattamente come il suo opposto.

Non c’è alcuna ragione per cui potremmo dirvi che il nostro status di donne bianche e occidentali non sia privilegiato rispetto a quello delle donne afghane, ma ciò che ci siamo chieste è: come possiamo sfruttare il nostro vantaggio a loro favore? Come strumentalizziamo nella causa il nostro privilegio affinché non resti solo una condizione identitaria monolitica?

Le femministe del RAWA (qui trovate l’articolo in cui parliamo di loro) ci hanno indirizzatæ. Durante un’intervista pubblicata nel loro sito il 20 agosto del 2021, le attiviste si sono rivolte a noi, femministe occidentali, esortandoci a raccontare e denunciare gli abusi e le violenze che ogni giorno donne, uomini e bambini sono costrettæ a subire in Afghanistan, e a non lasciarle nell’angolo dell’abitudine alla tragedia. 

Ci hanno inoltre chiesto di mettere in luce i reali motivi dell’occupazione – e ritiro – degli Stati Uniti, che poco hanno a che fare con ideali democratici e con la tutela dei diritti. Sono state schiette, dirette e non per un qualche gioco di potere all’interno del movimento mondiale, ma perché adesso per loro rappresentiamo l’unico modo per essere ascoltatæ.

La loro voce deve diventare la nostra voce e la loro resistenza la nostra resistenza.

A che cosa? Alle dinamiche oppressive di un intero sistema mondiale, che legittima le violazioni dei diritti in cambio di consenso politico e certezze economiche.

Quando si parla di femminismo occidentale, si tralascia spesso la questione estera, come se le due parti non fossero indissolubilmente legate da una lotta continua contro degli oppressori.

Certo, la vanificazione di questa lotta è vicina se spostiamo il focus sul nemico da affrontare, ed è facile smarrirsi tra le molteplici violenze e disparità contro cui schierarsi. Ma la forza e la coesione di questo movimento sta proprio nella sua eterogeneità: attaccare su più fronti il patriarcato ci permette di infliggere innumerevoli colpi alle sue fondamenta e di crettare questa struttura tanto arcaica quanto illegittima.

Combattere affinché le disparità di genere scompaiano da un’intera società è ANCHE combattere affinché nessun’altro (sì, usiamo volontariamente il maschile) si arroghi il diritto di sottometterci perché donne. Combattere per la libertà estetica ed espressiva è ANCHE combattere affinché un’istituzione – religiosa, nello specifico caso – non interferisca con la nostra libertà di esistere. Combattere per l’equal pay è ANCHE combattere affinché il diritto al lavoro sia garantito a chiunque.

Il femminismo bianco occidentale, di fronte al femminicidio di massa e alla costante violazione dei diritti umani messi in atto dai Talebani, DEVE schierarsi, deve allearsi, deve prestare i suoi mezzi, deve asservire le proprie battaglie, che devono rimanere tali, alla costruzione di un mondo equo e giusto, di un sistema orizzontale che smetta di porre al vertice piccoli uomini bianchi in giacca e cravatta.

E deve contrastare il peso di un sistema capitalista e suprematista che continua a schiacciare, giorno dopo giorno, chi non ha le forze di reggerlo questo peso, perché da solæ non possono più resistere.

Abbiamo dalla nostra la possibilità di istruirci, formarci e aggregarci senza essere uccise; abbiamo la possibilità di una rappresentanza politica che regoli le decisioni senza che queste includano stupri e torture; possiamo dissentire contro il governo senza perdere la vita; abbiamo delle persone alleate, e potremmo averne ancora di più; possiamo vivere, e non sopravvivere.

Ed è questo che ci chiedono le donne del RAWA: non smettere mai di lottare. Per noi, per loro, per chiunque ne abbia bisogno.

Raccontiamo la loro storia, schieriamoci al loro fianco e urliamo a gran voce che ci siamo stancate di essere vittime. Perché obbligare per sempre una vita dietro a un burqa equivale ad ucciderla.

Loro non ci abbandonerebbero, non facciamolo nemmeno noi. 

“VOI AVETE CREATO IL CAOS, NOI DONNE RESISTEREMO”, le donne del RAWA.

Elisa Alvelli, Gloria Gori

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