Il controllo sulla propria narrazione è un privilegio che si dà spesso per scontato.
E in un mondo così affollato e rumoroso, è facile perderlo.
Pensiamo alle parole che spesso utilizziamo per descrivere le persone in loro assenza: è una scelta totalmente arbitraria, che sfugge al controllo di chi non c’è e che influenza la prima impressione che le altre persone si fanno di noi.
“Sì, ma che ti frega di quello che pensano le altre persone?”
È proprio grazie a come ci percepiscono le altre persone in nostra assenza che si delinea la nostra identità sociale.
Non possiamo essere sempre dove qualcuno parla di noi.
E se lo fa nel modo sbagliato, o almeno non nel modo in cui vorremmo(o peggio ancora, non lo fa affatto), questo può creare una visione distorta della nostra storia: per qualcuno è niente, per altr* è tutto.
In God Save the Queer, Murgia esplicita bene questo concetto: “Le cose che hanno un nome condiviso sono già, in potenza, di tutt*”.
E lo credo anche io.
Le parole sono strumenti di vergogna e sorveglianza, ma anche di liberazione e autodeterminazione.
Spetta a noi sfruttare il privilegio di avere una voce e di usarla per tutte le persone che vivono schiacciate dal peso dell’eteronormatività, delle disuguaglianze, delle oppressioni, senza che questo crei un’aspettativa utilitaristica.
Harvey Milk, attivista e politico statunitense per le persone LGBTQI+, pronunciò una delle frasi più utilitaristiche che siano mai state dette da un attivista: ” Se non ti mobiliti per difendere i diritti di qualcuno che in quel momento ne è privato, quando poi intaccheranno i tuoi, nessuno si muoverà per te. E ti ritroverai solo.”
Che è un po’ quello che diceva Gesù.
Erano gli anni ‘60/’70 e le donne non avevano ancora conquistato il diritto all’aborto, quello al divorzio, la legge sulla violenza, e tutta la preziosissima eredità della Seconda Ondata Femminista, per non parlare del razzismo.
Eppure, Milk aveva ragione.
Nessuna persona prenderebbe l’iniziativa, se non ne conseguisse un piacere personale, tantomeno oggi.
La merce di scambio resta la stessa: il mutuo appoggio.
Ma la solidarietà, la legge universale della natura senza la quale saremmo ancora organismi acquatici monocellulari (una salvezza, più che una condanna), è stata inquinata.
E così ci ritroviamo a fare liste sui perché della nostra lotta, senza approfondire i perché delle altre lotte.
E soprattutto, senza domandarci davvero in che modo siano tutte collegate.
Harvey Milk non è quella frase, e la deduzione che ho fatto, per quanto logica, è riduttiva e fuorviante dalla causa.
Ma l’idea di dover affrontare un nemico senza prima sincerarmi di non essere io, quel nemico, mi terrorizza.
Di fatto, il privilegio di essere ascoltata ce l’ho già, e se non lo sfrutto come amplificatore, a cosa mi serve davvero?
A mantenere il mio status.
È, se vogliamo metterla in termini filosofici, il “non detto del patto sociale”, e le cose non dette mi spaventano sempre: un silenzioso assenso alla repressione da cui mi voglio liberare.
Diciamoci tutto quello che vogliamo dirci, almeno oggi.
Bibliografia
Tabucchi A., Sostiene Pereira, Feltrinelli, gennaio 1994.
Kropotkin P., La morale anarchica, La Fiaccola, (1889) 1984.
Murgia M., God save the Queer, Giulio Einaudi Editore, novembre 2022.
Miller M., La canzone di Achille, traduzione di Matteo Curtoni – Maura Parolini, Sonzogno, 2013.
Miller M, Circe, traduzione di Marinella Magrì, Sonzogno, 2018.