RASSEGNA STAMPA

La questionæ afghana

Le varie tappe.

Che non fosse una buona idea sedersi a tavolino e iniziare con i Talebani una trattativa che avrebbe coinvolto milioni di persone, l’avevamo capito; ma non ci troviamo qui per fare una lezione di geopolitica e quindi ci limiteremo a raccontare in breve (molto in breve) quello che moltæ definiscono una delle crisi umanitarie peggiori di sempre.

Per la sua posizione geografica, l’Afghanistan ha permesso sin dall’antichità importanti scambi commerciali tra Oriente e Occidente e questo ha favorito la diversificazione tra le varie etnie già presenti nel territorio: dai Persiani ai Greci, dai Mongoli agli Indiani, dai Sovietici e agli Americani, l’Afghanistan è stato teatro di colonialismo e guerre, che hanno letteralmente reso il paese un puzzle linguistico, economico, culturale e religioso.

Nonostante la maggioranza etnica sia quella Pashtun, il Paese è sempre stato internamente diviso da confini piuttosto marcati, che hanno certamente rallentato la coesione sociale e lo scambio tra i vari gruppi; e questo, oltre che un importante limite comunitario, è diventato anche un ridondante sistema di gestione politica.

Di fatti, molte etnie potevano sfuggire alla giurisdizione di Kabul, la capitale, contribuendo alla frammentazione e all’instaurazione di gruppi armati e milizie del tutto estranee al governo; un po’ per motivi geografici – il terreno è particolarmente montuoso e avverso – e un po’ per l’oggettiva incapacità numerica e strategica dell’esercito nazionale.

Ma come siamo arrivatæ, quindi, alla presa di Kabul da parte dei Talebani?

Alla fine degli anni ‘90, un’organizzazione terroristica chiamata Al Qaeda si stabilì nel territorio afghano e si alleò con il gruppo militare fondamentalista dei Talebani. Questo sfociò in diversi attentati contro l’Occidente – i più noti, quelli del 1998 alle ambasciate americane – e al più grande nella storia degli Stati Uniti: l’11 settembre del 2001.

Nel frattempo, in Afghanistan crescevano i campi di addestramento terroristico e andava instaurandosi un regime armato a cui l’esercito nazionale non poteva in alcun modo resistere.

Dopo l’attentato delle Torri Gemelle, l’allora presidente degli USA George Bush iniziò la war on terror (lett. guerra al terrorismo) con il gruppo guerrigliero dei Talebani, affinché Osama Bin Laden, fondatore e leader di Al Qaeda, venisse consegnato agli Stati Uniti e che quest’ultimi potessero intervenire per liberare l’Afghanistan dal regime terroristico.

I Talebani, di tutta risposta e coerentemente con i loro principi fondamentalisti islamici, non concessero alcuna delle richieste fatte da Bush, contestandone la natura giuridica e proponendo la verifica dei fatti – e quindi anche del coinvolgimento di Bin Laden – di fronte ad un tribunale internazionale e alle leggi della Sharia (sistema di precetti e comportamenti morali, giuridici, religiosi dettati da Dio, ndr).

Bush decise che non era abbastanza e, dopo altre inutili trattative, iniziò la sua azione militare – non così illegittima secondo l’opinione internazionale –  in campo afghano.

Non rimarremo qui a spiegare come siamo passatæ dalla dichiarazione di Jihad (Guerra Santa) di Al Qaeda agli Stati Uniti alle varie tappe del conflitto. Quello lo lasciamo fare a chi è più competente, e quindi saltiamo direttamente al point break: gli accordi di Doha del 2020.

A partire dal 2015 le forze NATO, fino a quel momento impiegate come supporto all’esercito afghano, terminarono la loro missione, portando inevitabilmente a un ridimensionamento numerico delle truppe e a degli svantaggi militari ( es. aereo) per il governo di Kabul. Questo permise ai Talebani di avanzare soprattutto nelle province, fuori dal controllo centrale, e di implementare attacchi terroristici su tutto il territorio, anche grazie alla totale devozione (e quindi credibilità e coesione) religiosa del gruppo.

Con l’elezione di Trump nel 2018, si apre un ulteriore varco per i Talebani: il nuovo presidente degli USA sigla un accordo di non responsabilità travestito da accordo di pace, in cui, dopo più di un anno di trattativa, sancisce il ritiro delle truppe americane dal territorio afghano entro il 2021, in cambio di condizioni idealmente accettabili ma totalmente irrealizzabili dai Talebani.

Trump ha deciso di affidare la pace e l’incolumità di milioni di civili ad un gruppo militare terroristico e fondamentalista, coinvolto nell’attentato più grande della storia degli Stati Uniti e governato da principi violenti e disumanizzanti.

Bella prova.

Ed ecco che arriviamo ad agosto 2021: il tempo sta per scadere e le truppe americane organizzano il ritiro, in accordo con i trattati di pace e con la politica del nuovo presidente, Joe Biden.

Questo concede ai Talebani tempo ed energie per poter nuovamente avanzare; inoltre, contribuisce al crollo dell’identità governativa di Kabul, lasciando di fatto un’intera nazione allo sbaraglio.

L’esercito afghano non ha modi e mezzi per poter contrastare l’avanzata talebana nella capitale, e ogni risorsa militare americana che lascia il paese è una speranza in meno di sopravvivenza.

L’Occidente così, nascondendosi dietro al velo di un accordo di pace tragicamente fragile, ha validato e riconosciuto l’autorità – e le leggi – di un gruppo terroristico fondamentalista, concedendogli di instaurare un regime violento e sanguinario.

Come sempre, in questa storia la stampa internazionale non ha mai parlato delle effettive vittime: donne, uomini, bambine e bambini afghanæ. Si parla di “delicate questioni geopolitiche”, si comunicano i numeri dei militari americani “che hanno dato la vita per la guerra in Afghanistan”, di come le bombe che cadono dal cielo distruggano sempre ospedali, punti strategici e ci forniscono un numero asettico di bambine e bambini uccisi per mano dei cattivi

Noi, invece, vogliamo parlare delle vive, dei vivi, che non scappano, che rimangono nella loro amata terra e protestano, si ribellano.

Vogliamo parlarvi delle femministe afghane, donne che non lasciano il paese, che non si piegano alla Sharia, che rischiano ogni secondo della loro vita.

Ci mettono la faccia, senza vestire il burqa: rivendicano i loro diritti e colpevolizzano l’Occidente di averle lasciate sole. 

Vogliamo raccontarvi di una costante lotta per la libertà e lo facciamo qui.

Elisa Alvelli, Gloria Gori.

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