Il caso concreto
In questi mesi con la rubrica “giuridicae” vi abbiamo presentato l’inquadramento giuridico di singole fattispecie di reato o disegni di legge, ma per l’uscita di ottobre, anche a causa dell’allarmante incremento dei casi di femminicidio durante l’estate, abbiamo optato per un cambio di rotta: vi illustreremo un caso concreto, quello di Sarah Everard, giovane donna inglese uccisa nel marzo di quest’anno.
Il femminicidio della Everard è avvenuto pochi giorni prima dell’inizio dei lavori del progetto che ha dato poi vita a Collettivae; le particolari circostanze in cui si sono svolti i fatti, nonché la pubblica indignazione a cui hanno dato adito, hanno fatto sì che anche nel nostro territorio se ne raccogliessero la risonanza e lo sgomento, e ci hanno ispirate nella creazione di questa nostra realtà; perciò per noi è doveroso parlare di Sarah Everard e delle vicende legate alla sua morte.
Prima di addentrarci nel caso, essendo questa una rubrica che tratta temi giuridici, precisiamo che quella di femminicidio, ad oggi, non costituisce una fattispecie tipizzata nel nostro codice penale ma va ad inquadrare un fenomeno sociale – o meglio un’emergenza sociale – con cui si identificano tutti i casi in cui una donna viene uccisa da individui di sesso maschile per motivi legati al genere. Il caso di sarah Everard si colloca pienamente in questa definizione.
Inquadriamo brevemente i fatti: Sarah Everard, una ragazza inglese di 33 anni, la notte del 3 Marzo 2021 si era recata a casa di amici e nel tornare è stata rapita, violentata e successivamente uccisa da Wayne Couzens, agente in carica della Polizia Metropolitana di Londra.
Sarah era uscita dalla casa degli amici alle ore 21.00 e a separarla dalla sua abitazione era una passeggiata di circa 40 minuti. Per affrontare il rientro la giovane aveva attuato tutte le precauzioni del caso, quelle che ci vengono indicate sin da ragazzine: aveva optato per la strada più illuminata e trafficata, indossava abiti comodi e scarpe da running (per quel che può valere) e aveva telefonato al fidanzato per non restare del tutto sola durante la camminata. E’ in questo lasso di tempo che viene rapita, stuprata ed uccisa; le sue ultime immagini sono di una telecamera di sicurezza che si trovava lungo il tragitto. Il giorno dopo il fidanzato segnala la sua scomparsa, si mettono in moto le ricerche e i suoi resti vengono ritrovati a 30 km dalla casa del suo assassino.
Il caso Everard è emblematico e significativo per più ragioni: anzitutto perché ha definitivamente dimostrato (sempre che ce ne fosse ancora bisogno) che le scelte circa il vestiario o il percorso della vittima non si rivelano in grado di scoraggiare un aggressore che ha deciso di aggredire. Un aggressore che, in questo caso, avrebbe dovuto proteggere Sarah poiché era un membro in carica della polizia MET; la vicenda quindi ci fa comprendere chiaramente come la violenza di genere possa essere perpetrata da chiunque: da un compagno, da un marito ma anche da coloro che avrebbero il compito di proteggerci.
In ultimo, il caso Sarah Everard è estremamente significativo per le grandi proteste che ha scatenato sul suolo londinese ed inglese, dando vita al movimento “Reclaim these streets” e “Riprendiamoci la notte”, che sono sfociate in disordini tra le donne manifestanti e la polizia di Scotland Yard. Epicentro la manifestazione del 13 marzo 2021 nel parco di Clapham Common, luogo in cui Sarah è stata vista per l’ultima volta. Centinaia di persone si sono riunite portando candele, fiori e cartelli in onore di Sarah sotto lo slogan “She was just walking home” (“Stava solo tornando a casa”). L’evento però non era stato autorizzato a causa della pandemia e per questo la repressione della polizia è stata violentissima: hanno spintonato diverse donne, facendole cadere a terra, e minacciato arresti. In tutto sono state fermate quattro donne e altre sono state multate.
Questo intervento ha infiammato ancora di più gli animi dei manifestanti e sicuramente anche la diffidenza nei confronti della polizia. Sul New York Times è stato scritto che una veglia pacifica, fatta per commemorare una giovane ragazza uccisa da un poliziotto in modo raccapricciante e protestare contro la violenza sulle donne, si è trasformata in una dimostrazione di repressione e violenza istituzionale nei confronti delle donne stesse. La polizia di Londra non avrebbe potuto fornire un esempio migliore di quello per cui le donne stavano protestando.
Le partecipanti hanno dichiarato di essere andate alla manifestazione perché, dopo la scomparsa di Sarah, la polizia di Londra è andata casa per casa nel quartiere di Clapham dicendo loro che, per tutelare la loro sicurezza, sarebbero dovute rimanere a casa per evitare di essere aggredite… ma le donne hanno gridato NO con tutte le loro forze, chiedendo e pretendendo un cambiamento, manifestando per qualcosa che dovrebbe essere scontato, ma che purtroppo ancora scontato non è.
Il comportamento della polizia ha creato una forte indignazione; tanto che, in risposta, il 10 marzo 2021 la deputata Jenny Jones ha provocatoriamente proposto alla Camera dei Lord un coprifuoco alle 18 per gli uomini, sostenendo che così sicuramente le donne sarebbero state più al sicuro. Ovviamente ha dovuto subito sottolineare – ed è triste che abbia dovuto farlo – che questo non cambierebbe le cose, anche perché almeno una donna su tre subisce abusi domestici e quindi ci sono più probabilità che ad uccidere una donna sia il partner piuttosto che un estraneo. Per questo il coprifuoco per gli uomini non renderebbe più sicure le donne.
Jenny Jones però ha voluto far notare che quando invece è stato detto alle donne di non uscire di casa da sole, nessuno ha battuto ciglio. Questo perché siamo ormai abituate a sentirci dire che dobbiamo modificare il nostro comportamento in reazione alla violenza maschile.
Dopo la morte di Sarah Everard i social media si sono riempiti di racconti e testimonianze di molestie e violenze subite dalle donne nei luoghi pubblici.
Fin da piccole, per colmare questa sensazione di insicurezza che abbiamo nel tornare a casa da sole, ci vengono suggerite delle “precauzioni”: scrivere un messaggio ad un’amica prima di mettersi in cammino e un altro quando siamo arrivate, stringere le chiavi nel pugno della mano, indossare scarpe comode, scegliere strade più illuminate, avere in borsa lo spray al peperoncino. Fin da piccole ci viene spiegato come proteggerci; ma la triste verità è che nessuna donna tornando a casa da sola di sera si sente al sicuro.
Nel caso di Sarah, nonostante lei avesse fatto tutto quello che viene suggerito alle donne di fare per non subire violenze in luogo pubblico, è stata comunque messa in atto una disgustosa colpevolizzazione della vittima: “Perché era ancora in giro da sola alle 21:30? Perché non ha preso un taxi? Cosa pensava che le sarebbe successo?”.
Il peso della sicurezza delle donne viene sempre fatto ricadere sulle donne stesse anziché sugli uomini. Forse, anziché continuare a parlare di cosa possono fare le donne per evitare di essere aggredite, sarebbe il caso di iniziare a parlare di cosa possono fare gli uomini per farci sentire al sicuro.
Insomma, da sempre ci viene detto come dobbiamo comportarci per non essere aggredite… ma quando inizieranno a dire agli uomini di non aggredirci?
Aurora Bui, Emma Ciofini